In riferimento all'Articolo di @MichelaMarzano pubblicato su Repubblica:
Gentile
Michela,
se
il dibattito sull’accesso alle origini dei figli non riconosciuti alla nascita
si fossilizzasse sul significato della parola “abbandono” sarebbe certamente
limitato.
Non
c’è dubbio che una persona si può sentire “abbandonata” anche se affidata dai
genitori biologici a servizi sociali capaci e accoglienti. Per non parlare di
coloro che sono stati gettati in un cassonetto o lasciati in una corsia
d’ospedale. Per fortuna questi ultimi casi sono sempre meno frequenti e la
grande maggioranza dei bimbi non riconosciuti è davvero accudita in un luogo
protetto.
Mi
sembra però onesto riconoscere che Anfaa non riduce le sue perplessità
sull’argomento ad una questione di mero “lessico”, ma motiva le sue
argomentazioni in modo molto articolato.
La
sua affermazione (“Perché far finta di non sapere che c’è stato abbandono?”) mi
obbliga a precisare che il nostro indugiare sulle parole è spesso motivato
dalla superficialità con cui il mondo della comunicazione tratta argomenti
delicati quali l’adozione.
Pertanto,
mentre può essere comprensibile non essere d’accordo con le posizioni
dell’Anfaa e ancora più importante comunicarlo al mondo, per aprire un
dibattito sull’argomento, può essere fuorviante e non corretto, svalutare il
pensiero altrui riducendolo ad una questione letterale.
Come
prova della complessità della questione aggiungo anche questa considerazione.
Se
anche le dicessi che per me l’”abbandono” esiste, unitamente al “dramma di
tutte quelle persone che cercano disperatamente di avere accesso alle proprie
origini”, non abbiamo ancora risolto la questione sottesa: il diritto della
donna all’anonimato viene o non viene violato con l’accesso del figlio non
riconosciuto alla nascita?
Come
vede, non è solo una questione di “senso
delle parole”.
Restando
sempre disponibile ad un dialogo costruttivo, la saluto cordialmente
Graziella Tagliani
(Figlia adottiva e Consigliere Anfaa)
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